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La rinuncia alla liquidazione dei beni: dal fallimento alla liquidazione giudiziale del codice della crisi
a cura del Dott. Valentino Sibilio
Nell’ambito delle procedure concorsuali di natura liquidatoria, la vecchia legge del 1942 ed ora il codice della crisi sono disciplinate le modalità dell’attività liquidatoria che rappresenta uno dei settori fondamentali dell’attività del curatore essendo finalizzata al recupero dell’attivo da distribuire ai creditori. Tuttavia la liquidazione comporta necessariamente delle spese e, sempre in una prospettiva prima economica e poi giuridica, vengono regolamentate anche le ipotesi in cui non è opportuno o vantaggioso procedere alla liquidazione di uno o più cespiti di una procedura liquidatoria. Trattasi della rinunzia alla liquidazione dei beni che la vecchia legge fallimentare disciplinava all’art. 104 ter comma 8° L.F. La nuova disciplina del CCI introduce alcune significative rettifiche in quanto questa norma si limitava a stabilire che la liquidazione poteva essere non avviata o, se avviata, rinunciata, in caso di manifesta non convenienza, ma non veniva disposto, nulla, però, né sulle modalità della rinuncia né sulle modalità di attuazione della rinuncia relativamente al bene né sulla valutazione della manifesta non convenienza. La prima questione è stata risolta in via applicativa con la semplice istanza tramite la quale il curatore rivolgeva al comitato dei creditori (o al giudice delegato in via di supplenza) la domanda motivata con la quale chiedeva di essere esonerato dall’acquisizione o dalla liquidazione. L’art. 213 comma 2° CCI ha lasciato invariato questo criterio ma ha colmato le lacune dell’art. 104 ter comma 8° L.F. sotto due profili: le modalità di esecuzione dell’autorizzazione alla rinuncia e la determinazione della manifesta non fondatezza, stabilendo espressamente che, una volta ottenuta la rinuncia, il curatore ha l’obbligo, oltre che di darne la comunicazione ai creditori, di notificare l’istanza e la relativa autorizzazione ai competenti uffici per l’annotazione nei pubblici registri. Il problema, però, non riguarda solo i creditori, ma anche il fallito, rispetto al quale la normativa, sia la vecchia sia la nuova, sono rimaste del tutto silenti in quanto, in entrambi i casi, la comunicazione della derelictio deve essere data solo ai creditori. Poiché però la derelictio determina la cessazione di quel particolare effetto della procedura – fallimentare o liquidatoria giudiziale – che è lo spossessamento con il conseguente ripristino dei poteri dispositivi in capo al fallito, è da ritenere che la comunicazione debba essere rivolta anche a quest’ultimo. Come anticipato, l’art. 213 comma 2° CCI ha risolto – o, per meglio dire, ha cercato di risolvere anche il problema della determinazione della manifesta non convenienza, introducendo un importante correttivo stabilendo che si presume manifestamente non conveniente la prosecuzione dell’attività di liquidazione dopo sei esperimenti di vendita cui non ha fatto seguito l’aggiudicazione, salvo che il giudice delegato non autorizzi il curatore a continuare l’attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi.